Tiziana Campanella e Ti porto dentro nella intervista di Segmenti Editore
Tiziana Campanella autrice di Ti porto dentro, nella intervista che segue racconta alla nostra redazione come è nato il suo romanzo, descrive i protagonisti Annik e Christian, uniti dalla stessa passione: la musica e la cultura Mod.
Un romanzo introspettivo con la musica in sottofondo.
D. Che cosa ha ispirato il suo romanzo?
R. Questo romanzo è il frutto di un intreccio, di un’integrazione tra il mio lavoro e la passione per la scrittura. Sono una psicoterapeuta e nel 2013 ho partecipato al Premio Nazionale Giovani Terapeuti con il lavoro “La relazione terapeutica: una musica in grado di accordare” che mi entusiasmò moltissimo.
In uno studio pubblicato dall’università di Toronto, viene dimostrato come l’effetto della musica di Mozart, sia in grado di ‘ricaricare’ di onde elettriche più rilassanti non solo il cervello, ma anche gli organi interni, cuore compreso, ristabilendo un ritmo più calmo.
La Mozart-terapia sembra avere un notevole beneficio neutralizzando le extrasistole e placando l’ansia. Ma come mai, mi son chiesta, una determinata musica e non una in generale, ha il potere di modificare gli stati d’animo? È questo che ha innescato la mia curiosità. È stata una ricerca e un’esplorazione profonda che non conosce risposte semplici né esatte, ma è diventato anche un viaggio esaltante che ha senz’altro stimolato la conoscenza e l’ulteriore approfondimento e che ho trasformato in romanzo.
Inoltre, profuma di quelle scie emotive che appartengono alla difficoltà di oggi di entrare in relazione con l’altro.
D. Come definirebbe il suo romanzo?
R. È un romanzo introspettivo, sicuramente ma non è solo questo. È anche un romanzo sulla musica. Ne rappresenta il sottofondo.
Daniel Levitin dice che il nostro cervello sotto effetto della musica è un modo di capire i più profondi misteri della natura umana.
Credo molto in questo.
Questo romanzo nasce da questa profonda convinzione. D’altronde la musica è un attivatore di emozioni. E ognuno di noi spesso ha un mare interiore turbolento dentro e non si ha una parola per spiegarlo e decifrarlo nel momento.
Ognuno di noi poi è abituato ad ascoltare alcuni generi musicali e non altri. Proprio come la protagonista Annik, che trova in Christian un ragazzo mod, uno stimolo in questo senso, verso un’apertura che metterà in luce nuovi aspetti di sé. Mai visti, mai esplorati, mai espressi.
Imparerà attraverso l’altro a sostituire nuove emozioni a vecchie situazioni promuovendo nuove narrazioni.
Quando non si riesce a esprimere un’emozione allora cerchiamo un canale o qualcuno che lo faccia per noi.
Neruda diceva che ognuno di noi ha una favola dentro che non riesce a leggere da solo. Ha bisogno di qualcuno che con la meraviglia e l’incanto negli occhi la legga e gliela racconti.
D. Nel libro si fa spesso riferimento alla musica e al suo potere di unire le anime. Perché secondo lei la musica ha questo potere?
R. Mi sono chiesta: Cos’è che dà benessere interiore? Beh forse l’elemento che sta alla base sia delle relazioni umane che dell’esperienza della musica è l’armonia. L’armonia Siegel la definisce come quel flusso integrato appartenente ad un sistema flessibile, non rigido, non caotico. Proprio come nella musica. La parola armonia proviene dal greco e vuole dire unione, consonanza di note o di emozioni, che produce una sensazione piacevole in chi le ascolta.
Perché la musica ci coinvolga emotivamente e fisicamente dice Levitin è necessario che abbia un battito facilmente prevedibile. La creazione di aspettative è il cuore della musica. E secondo voi non è la stessa cosa che accade anche all’inizio di ogni relazione?
Ed è di un incontro che parla il romanzo e di tutto quel maremoto emotivo che si muove intorno alle aspettative che si creano e che parlano però del proprio repertorio emotivo personale.
Perché nella vita capita che non è possibile spiegare tutto con le parole. Esiste un tempo diverso che segue un ritmo diverso e che appartiene al canale emotivo e quello si sa, spesso si fa fatica a sentire esprimere e gestire.
Ecco perché in questo la musica arriva in aiuto.
Dice Victor Hugo “Ciò che non si può dire e ciò che non si può tacere, la musica lo esprime”.
A volte non si può spiegare cos’è che la bellezza di una musica ci permette di sentire, o l’incontro con una persona ci permette di esplorare. L’incanto di Annik è proprio qua.
La musica ci piace perché ci permette di lasciarci andare di abbandonarci alle sensazioni. Cosa che non si è più abituati a fare. Soprattutto nelle relazioni.
E non solo. La musica aiuta a fare spazio dentro.
La musica aiuta a non sentire dentro il silenzio che c’è fuori, dice Johann Sebastian Bach.
Bellissimo e niente di più vero. Ma per arrivare a questo c’è un processo. Emotivo. Esperienziale. Relazionale. Spesso noi scegliamo la musica che si muove secondo lo stesso ritmo delle nostre emozioni, ma che in quel preciso momento non riusciamo a cogliere o a darne senso e così la musica ci offre quello spazio, quella possibilità di fare chiarezza interiore al di là delle parole, se non altro per apprendere nell’immediato una ritrovata armonia interiore. È chiaro che il tutto rientra poi in un processo più complesso.
È quello che accade ad Annik.
D. Quali sono i protagonisti del romanzo?
R. I protagonisti sono Annik e Christinan, due ragazzi fondamentalmente alla ricerca di se stessi, con la sensazione addosso di aver sbagliato tempo, spazio e forse posto, stanchi di sopravvivere in una società che obbliga alla velocità, all’omologazione, all’indifferenza.
Annik è una ragazza dalle origini belga che ha ereditato dai nonni una casa su uno dei colli più belli di Roma, il Gianicolo. Incontra per caso, per volontà o per fortuna, Christian che le permette di avvicinarsi a un genere musicale, che poi genere non è, legato ad una cultura specifica.
Quella mod, nata negli anni ’60 che trova le sue radici in un gruppo di giovani londinesi amanti del jazz moderno e attenti allo stile.
Con gli Who e gli Small faces il mod diviene uno stile, sinonimo di musica e cultura definito Swinging London, influenzando gli Stati Uniti e poi tutto il mondo, fino a giungere ai giorni nostri ma in piccola scala.
Il romanzo Absolute Begginers, ne diviene il culto.
Sarà proprio questo libro a innescare l’incontro tra Annik e Christian, un ragazzo alla ricerca di se stesso e dei suoi sogni.
Sarà il libro attraverso cui Annik si avvicina a quella cultura per poterla conoscere e poter dar vita ad un romanzo che non sa ancora di voler scrivere. E che prenderà una direzione imprevista.
Ma non scoprirà solo questo.
D. Perché la cultura "mod" che sembra essere "datata" dovrebbe coinvolgere i giovani?
R. Semplicemente perché è molto più attuale di quello che si pensa.
In verità è uno di quei pochi movimenti che persistono fino ad oggi da un tempo così lontano come gli anni ’60. Ma non si tratta solo di questo. Il mercato musicale nel 2015 ha riscontrato che i vinili hanno generato più utili di Spotify, YouTube e tutti gli altri messi insieme.
Questo ci dice molto sul bisogno emergente di oggi, quasi un’inversione di marcia, quasi un ritorno alla ricercatezza della musica, un bisogno di riscoprire un tempo adeguato e non arrangiato in cui fare esperienza di musica, proprio come i mods, che si sono talmente identificati da farne uno stile di vita. Ancora una volta, l’idea sembra di voler tornare ad un ritmo più naturale, ad un senso delle cose ricercato e sentito. E i mods hanno il culto del vinile.
Nel romanzo cito diversi autori che hanno scritto del movimento mod, come La rivolta dello stile di Francesco Gazzara – compositore e scrittore - che dopo aver letto il romanzo, ha accettato di scrivere una prefazione per un’eventuale ristampa. Questo mi riempie di immensa gioia e incrementa l’entusiasmo per una passione condivisa.
Non importa il tipo di genere musicale che si preferisce, ma è l’attitudine che si sceglie nel coltivarla, che fa la differenza. Come nella musica, così anche nella vita.
D. È un romanzo sull’incomunicabilità di questa nostra società?
R. Sì. Decisamente. Ma è venuto fuori da sé. Come una creatura che ormai è dentro di me, di noi.
D. In un mondo di iper-comunicazione quanto si è soli?
R. Credo davvero tanto. Troppo. Perché in realtà si tratta di un’illusione. L’incontro non avviene tra immagini, ma è quello chearriva a pensare la mente. È quello che arriva a pensare Annik.
Gli incontri con le persone non sono mai casuali, ma a volte noi scambiamo l’altro per l’idea che abbiamo dell’altro.
L’altro diviene un riflesso che in verità, appartiene a noi stessi. La seduzione si basa su questa logica, sull’idealizzazione di ciò che vorremmo ci corrispondesse, ma la relazione d’amore è un’altra cosa.
Annik e Christian sono il risultato di una società che tutt’oggi spinge a un’omologazione di massa, dalla quale cercano di fuggire e di distinguersi puntando alla propria identità, unicità, attraverso le proprie passioni, lui con la musica, lei con la scrittura.
L’altro è un riflesso di ciò che noi ci portiamo dentro. Solo che non ne siamo consapevoli.
D. Qual è dunque la difficoltà maggiore di cui Annik ci parla e sembra dunque rappresentare un po’ la difficoltà del nostro tempo?
R. Annik si scontra forse con le due problematiche emergenti nella nostra società: la difficoltà di entrare in relazione con l’altro, perché vissuto come un’immagine e non come reale, e la difficoltà a stare.
La velocità è nemica della sensazione, nemica della riflessione, della capacità di modulare le proprie emozioni. E impedisce di sentire il proprio ritmo, l’unico tentativo resta quello forse di sincronizzarsi con quello di un altro per poterne avvertire l’esistenza.
Nella velocità delle cose, dei rapporti, dello svelarsi, della vita, tutto diventa meccanico. Più sono veloce ed efficiente e più si riduce il volume affettivo delle cose. Ma per ascoltare è necessario rallentare.
E il luogo per eccellenza in cui la velocità manifesta di più la sua natura meccanica è quello relazionale. Con la fretta le persone diventano ostacoli sul cammino anziché interlocutori in dialogo.
La velocità appiattisce lo spessore delle relazioni e le trasforma in linee rette che devono andare da un luogo all’altro e da un obiettivo all’altro. Nella velocità non c’è spazio per l’incontro, per l’intimità, dimensioni che sono come schiacciate probabilmente dalla paura stessa che si ha di entrarci in rapporto davvero con l’altro. Allora diventano immagini che possono facilmente sostituirsi o replicarsi.
Ma l’anima cerca altro.
D. Cosa cerca Annik?
R. Forse, quello che in fondo cercano tutti. La fiducia.
Le storie non sono mai una linea dritta. Si muovono in cerchi. Quella di Annik è davvero una storia dentro la storia. Solo che per ritrovare la propria strada bisogna, a volte, avere il coraggio di perdersi.
Avere fiducia in ciò che accade non è uno slogan. Invece spesso per paura la mente anticipa e formula mille pensieri, perdendo di vista ciò che c’è.
In fondo il punto è proprio questo: avere fiducia in un ritmo che non ci tolga dalla sincronia con la nostra vita e con gli altri. Un ritmo che non elimini i punti di incontro. Pieno di imprevisti, variazioni e soste.
Quando manca la fiducia, anticipiamo o procrastiniamo.
È una misura della nostra disponibilità a darci credito, a investire su di noi e sulle nostre potenzialità.
E Annik è una persona che di fondo forse nella sua vita ha sempre creduto poco in se stessa.
Quando anticipiamo le cose lo facciamo perché non abbiamo la fiducia di aspettare che maturino o di rispettare il tempo dell’altro.
Facciamo il passo più lungo della nostra gamba per paura che il nostro procedere non sia adeguato.
La fiducia ha bisogno della nostra pazienza – perché non tutto accade quando vogliamo noi – del nostro coraggio e della nostra voglia di giocare. Perché sbagliare non significa che non meritiamo fiducia. Significa che stiamo imparando. E imparare non è un compito ma un gioco che nutre il nostro interesse e la nostra curiosità per la vita.
È molto meglio fidarsi della propria intuizione, piuttosto che cercare sempre una guida fuori di sé. È un po’ questo il processo di interiorizzazione che accade in Annik, è come riappropriarsi di qualcosa che vediamo riflesso costantemente nell’altro, il senso di quel ‘Ti porto dentro’.
D. Quanto c'è di autobiografico nei personaggi e nella storia stessa?
R. Scrivere, dice Calvino, è sempre nascondere qualcosa in modo che poi venga svelato. Svelato a se stessi s’intende. La scrittura per me è sempre stata legata visceralmente alla mia vita, ogni volta che compongo qualcosa, opero un processo dentro di me. Ho iniziato a scrivere fin da ragazzina, senza chiedermi perché, lo facevo e basta.
Poi ho sentito che non ne potevo più farne a meno, ed è diventato un bisogno, uno specchio attraverso cui guardare e leggermi dentro, e poter esprimere e domare quel mare di emozioni che spesso si sente ma a cui non riusciamo a dare nomi. Difficoltà che forse respiriamo un po’ tutti oggi, in questa società instabile e inafferrabile, che spiana le porte a insicurezza, solitudine e paure.
Allora Annik e Christian esistono nella sintesi di ciò che più mi ha emozionato, toccato, segnato tanto da poter permettere un cambiamento, una trasformazione interiore. Ma Annik e Christian nascono anche dai sogni ed i sogni danno origine ad un potenziale ricostituente, basta solo crederci veramente.
La storia appartiene a chiunque, a tutti coloro che hanno voglia di scoprire come meglio utilizzare la propria vitalità, che ha voglia di individuare la propria strada e a chi pensa che gli incontri con le persone possano essere occasioni cui dare valore, pensandoli come interlocutori piuttosto che ostacoli sul nostro cammino. Se non altro perché, può divenire un autentico dialogo con sé.
Poiché parla di aspetti emotivi che si muovo dietro l’incontro con l’altro, spero che questo romanzo possa offrire l’occasione a chiunque di potersi riconoscere sufficientemente da porsi delle domande, quelle stesse che mi sono posta io e che mi hanno aiutata a crescere.
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